Caro amico ti scrivo…

Esattamente un anno fa scrissi questa lettera di getto, come sempre dettata dalle mille emozioni che cerco e divoro ogni giorno. Ho deciso di pubblicarla sul blog perché l’umanità e l’empatia non dovrebbero conoscere confini, soprattutto quelli dettati da una società che ci vuole indifferenti, superficiali ed egoisti. Il mio cuore non sempre segue la ragione, e so che molte volte dovrebbe ascoltarla un pò di più; ma si sa che io sono questa, quella del vivi tutto e vivi adesso.

Ciao Roberto,

ho deciso di scriverti una lettera perché a voce non riesco a dirti quello che vorrei, vuoi per mancanza di tempo, vuoi per timidezza, vuoi perché non riesco mai ad aprirmi come vorrei, vuoi perché il rapporto medico – paziente forse non prevede questo tipo di confidenza, una confidenza che molti sicuramente vedranno come lo sconfinamento di un limite che non si può oltrepassare. Ma io sono quella che non ama i confini, quella che non mette regole alle parole, soprattutto se dettate dal cuore.

Sono due anni che ci conosciamo, il tempo passa ma non vola, non per chi come noi ogni giorno affronta il dolore. Siamo seduti a un tavolo, ma non dalla stessa parte. Siamo uno di fronte all’altro e anche se entrambi combattiamo per la vita lo facciamo per due motivi diversi, in due modi differenti. Tu hai scelto di farlo, a me è stato imposto da quello stesso destino che ci ha fatto incontrare. 

Come da tue istruzioni arrivo in ospedale alle ore 8.00. Riesco a prendere al volo l’ascensore per salire in reparto e dentro ci sei tu. Appoggiato alla parete mi guardi e mi sorridi. Ti saluto quasi con timore perchè vedo sul tuo viso una stanchezza che fa male. Scendiamo al piano, ti seguo mentre mi chiedi come sto. Sussurando ti rispondo “un fiore”, e mentre lo faccio trattengo l’istinto di toccarti la spalla per farti girare. Vorrei che mi guardassi negli occhi per capire quello che non riesco a dirti per paura di consumare il tuo tempo, di essere inopportuna. Eppure la sofferenza non dovrebbe mai esserlo, ma io questa maledetta maschera non riesco proprio a toglierla, nemmeno con te. Vorrei fermarti e dirti che ho paura, paura di non riuscire a trovare una via di fuga da questa incertezza che mi soffoca, vorrei dirti che sto male, che ogni giorno sprofondo un pò di più e che mi sento sola, troppa sola ad affrontare tutto questo. Naturalmente rimango muta, e tutte questa parole mi muoiono in gola mentre mi dici “Siediti pure lì, adesso arrivo”.

Mentre ti aspetto sento una signora urlare in una stanza che non riesco ad individuare. E’ un lamento continuo, acuto, devastante. Lo è per me, posso immaginare per chi dentro questo reparto ci lavora tutti i giorni, come te. Penso a quante volte, in situazioni e reparti diversi, ho sentito quei lamenti. Persone che chiamano un loro caro che forse non c’è nemmeno più; persone sole che chiedono aiuto; persone che urlano il loro dolore fisico, il loro disagio psicologico… Persone che hanno un nome, che non è il numero del loro letto.
Ti vedo mentre ti muovi tra le stanze, percepisco una tristezza che non so se è la mia o la tua. Mentre ti guardo entra una ragazza, si siede vicino a me. Sorride e parla con una signora, probabilmente la sua mamma. Ha evidenti disturbi del movimento, che è quello che riesco a vedere, il resto posso solo immaginarlo. La guardo e penso “Chissà se anche lei ha dovuto subire un lungo iter prima di capire il nome della sua bestia… Chissà se quel nome lo conosce o sta ancora aspettando…”. Cerco di immedesimarmi nel suo percorso, nella sua vita, e inevitabilmente ricado sulla mia. A come era, a come è adesso. A quello che diventerà.

Mi chiami, è il mio turno. Questa mattina il prelievo me lo fai direttamente tu. Mi chiedi con gentilezza quale parte del braccio preferisco, una delicatezza che solo chi ha dovuto fare mille prelievi riesce ad apprezzare veramente. Mentre prepari l’occorrente cerco di scherzare, di sdrammatizzare su quel lamento continuo che ci fa da colonna sonora, ma sei silenzioso o forse solo concentrato. Le mie vene non sono più collaborative da tempo e quindi il braccio mi si gonfia all’istante. “Non importa” ti dico… Quello che non ti dico è: “Mi dispiace, ma non per la mia vena. Mi dispiace per lo stress che hai addosso, mi dispiace se ci sono state volte in cui anche io ho contribuito ad alimentare quella pressione che ti schiaccia “…. “Tieni premuto e non piegare il braccio” …. Obbedisco, cerco i tuoi occhi e, sempre con un filo di voce, ti chiedo come stai. Mi rispondi qualcosa che però faccio fatica a comprendere perchè veniamo interrotti da una voce “C’è l’altra paziente che aspetta, bisogna fare presto”… Così mi alzo prendo la giacca e lascio il posto. Ci salutiamo in fretta. Fuori uno, avanti l’altro.

Esco dall’ospedale, chiudo gli occhi e respiro. Per me è diventato tutto davvero troppo insopportabile: l’odore, le stanze, le sedie, i letti…. Ho passato la maggior parte della mia vita lì dentro, dove ho conosciuto e incontrato veramente di tutto. La sofferenza, la superficialità, l’ignoranza, l’arroganza ma anche l’umanità, l’umiltà, l’empatia. Riapro gli occhi, e penso a te. A te che questa giornata l’hai appena iniziata, una giornata in cui non hai nemmeno avuto il tempo di dire come stai, veramente.

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La Zebrah Rosa by Deborah Capanna

2 risposte a "Caro amico ti scrivo…"

  1. Maria Teresa Cuniglio Maggio 11, 2019 / 8:45 PM

    Capisco e mi ci rivedo. Anche se conosco ormai il nome della mia malattia, la vita è completamente cambiata. I rapporti, quelli veri, gradualmente sono diventati distanti. A volte capisco la stanchezza di chi ti è stato vicino ma mi sento davvero sola

    "Mi piace"

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