Quando viene a mancare una persona con una malattia rara o non diagnosticata, e con alle spalle il solito lungo percorso che conosciamo fin troppo bene, leggere frasi del tipo “finalmente ha smesso di soffrire” o “adesso potrà riposare in pace”, mi fa davvero molto arrabbiare.
Mi infastidisco perché noi siamo molto di più delle nostre malattie, e combattiamo tutta la vita per dimostrarlo. Non è la morte la giusta fine del nostro percorso. È la vita, quella che ci viene negata e che noi ostinatamente vogliamo riprenderci.
Non sempre si riesce a capire o far comprendere a chi non la vive, il tipo di sofferenza alla quale è giusto porre fine. Nessuno di noi sceglie di passare giorni, mesi, anni in ospedale; di provare mille medicine e di convivere con il dolore. Non ci divertiamo a rimbalzare come palline da ping pong da un medico all’altro. Questo gioco al massacro ci procura solo un ulteriore tormento che non meritiamo.
Comunicazione, ascolto, presa in carico, percorsi diagnostici terapeutici assistenziali, ricerca: sono tutte armi indispensabili per cancellare quel supplizio aggiuntivo che devasta tutti, malati e familiari.
Anche chi non è, o non si sente coinvolto direttamente da queste malattie, dovrebbe preoccuparsi. Tutti sono potenziali malati invisibili. Queste bastarde non guardano in faccia a nessuno, non hanno età o sesso, in un attimo ci si ritrova in ginocchio senza saper dove sbattere la testa. Non c’è ascolto, presa in carico, aiuto. E’ pieno di castelli di carta, dove niente è come sembra. Ed è proprio in quel momento, quando i castelli crollano, che ci si rende conto dell’importanza di tutto quello che ancora non c’è. Perché è proprio in quel preciso momento che inizia anche il percorso verso l’inferno.
La morte non può e non deve essere vista come la soluzione del problema. La morte interrompe la vita, quella vita che ogni giorno difendiamo con tutte le nostre forze. Bisogna quindi porre rimedio alla sofferenza supplementare, quella causata dalla disorganizzazione, dall’ignoranza, dalla superficialità, dalla mancanza di assistenza socio-sanitaria. Abbiamo diritto e bisogno di avere le armi giuste per vincere le nostre battaglie quotidiane. Adesso, non poi. Poi è tardi, per tutti.
La Zebrah Rosa by Deborah Capanna
Leggo, d’un fiato, con il video e la tastiera di un telefono cellulare con cui ho difficoltà sia a leggere, che a scrivere. Benedetti i ragazzini che ti sviscerano decine di parole al secondo. Questo articolo mi fa tanto arrabbiare, così come mi fa arrabbiare la calda ipocrisia di chi giudica gli altri, senza conoscere le loro storie, o di chi dice “chiedi aiuto”, senza sapere che ci sono persone là fuori nel mondo che sono totalmente inascoltate e per le quali non esiste nessuna struttura, nessun protocollo ma, soprattutto, nessuna umanità, tranne sporadici casi lasciati alla strenua volontà del singolo, come il tuo. Sorrido quando, dopo anni di lotta per la dignità, mi trovo a sognare il diritto all’eutanasia anche per pazienti non diagnosticati, e trovo sempre il buontempone saggio che dice che la vita va sempre vissuta. A me lo dice? Che entri in casa mia, che veda le mie foto ai concerti, alle mostre prr capire se ero una persona che non amava la vita, che veda la lotta che ho fatto inutilmente con i sanitari disumani della mia città, che veda come sono messa e come vivo, o meglio, come non vivo oggi, e poi dia giudizi. Che veda quanto ho chiesto aiuti a casa e di quanto un paziente, anziché venire sorretto, venga ogni giorno deriso, umiliato, punito da medici che nemmeno si pongono la briga di capire in quali reali condizioni tu sia. Ho lottato tanto, ho lottato per anni, e ora sono solo rassegnata. Incattivita, irrancorita, arrogante con l’arroganza, ma soprattutto, rassegnata. Non sto vivendo, ma non importa a nessuno. Posso chiedere, gridare, implorare aiuto, ma non interviene nessuno. Ho visto in questi giorni il bell’intervento del Presidente Mattarella riguardo ai malati invisibili. Bellissime parole e un richiamo ad una umiltà che i medici della mia città non conoscono, neppure alla lontana. Belle, belle parole. Peccato che poi il paziente si scontri con sanitari pronti a giudicarlo senza neppure averlo mai visto, e che non sono disposti a dargli credito. Non so come ho scritto, come dicevo sono da telefono e non mi è congeniale, ma spero di essermi espressa comunque.
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